(testi tratti dal libro “Primo decennale del Palio del Tributo” di Edmondo Angelini)
1 Il tributo attraverso i secoli
La parola tributo ha assunto significati diversi, secondo il tempo e le civiltà che l’hanno adottata, ma ovunque e sempre il significato è riconducibile al fatto che qualcuno deve qualcosa – in denaro o in natura – ad un altro: il cittadino allo stato, il cittadino al signore, una città a un’altra città, uno stato a un altro stato, ecc.
Ora i centri abitati che gravitano nell’area territoriale di Priverno, avevano il dovere di pagare un tributo annuo a questo Comune. Non si sa se anche Roccagorga e Roccasecca dei Volsci avevano tale obbligo nei confronti di Priverno, ma è certo che Maenza, Prossedi e Sonnino lo pagavano da tempi assai lontani.
Si ignora con esattezza il carattere giuridico del tributo, ma sembra che si tratti di un assoggettamento dovuto a motivi territoriali che potrebbero risalire al X secolo; quando, nell’ambito del più complesso e vasto fenomeno dell’incastellamento, insieme all’abitato collinare, di Priveno ebbero origine gli altri centri circostanti. L’incastellamento locale, completamente privo di documentazione, sembra che sia da collegare alla scomparsa, dalla pianura di Mezzagosto, della Privernum romana.
Priverno possedeva una vasta area che si estendeva fino all’Appia e che certamente comprendeva una buona parte del sistema montuoso e collinare circostante che, in parte, si ritrova nella descrizione della Bolla di Alessandro III, del 1175, con la quale furono riconosciuti i confini territoriali tra Priverno e le comunità e castelli circostanti.
Allora il territorio di Priverno confinava con quello di Fondi e includeva una” grande fascia del versante meridionale dei Lepini. Quindi i siti sui quali sorsero i castelli ricordati si trovavano nel territorio di Priverno: probabilmente da questa situazione ebbe origine il versamento del tributo che, più tardi, forse, riscattarono i castelli di Roccagorga e di Roccasecca dei Volsci.
Una indicazione esplicita, in tal senso, si ha in una Memoria compilata sul finire dell’800, fondata su documenti, ora introvabili, relativi a discordie fra Sonnino e Priverno causate proprio dal versamento del tributo e da un’altra imposta, di natura diversa, quella del Consorzio.
Fra i documenti riportati ve n’è uno, del 15 luglio 1828 nel quale, facendo allusione al vivace carattere dei Sonninesi, allora particolarmente coinvolti dal brigantaggio, così è detto: “ (…) e prevedendo questi (comunità e popolo di Priverno) le future inquietezze, stimarono meglio assegnargli (ai Sonninesi) qualche parte del territorio che ora posseggono per il loro sostentamento per erigersi in Comunità, colla riserva però di quella piccola ricognizione dell’annuo tributo in denaro, e torcia di cera zaura da pagarsi il giorno della festa di S. Pietro Apostolo”.
Quindi, secondo questo testo, ma anche da antica tradizione storiografica, Sonnino – insieme con Maenza e Prossedi – pagava il tributo per essere sorto nell’area territoriale di Priverno. La natura del tributo emerge, dunque, dal contesto storico relativo alle scarse vicende note di Priverno e dei centri circostanti e lo stesso può dirsi circa il periodo in cui fu imposto. Probabilmente la sua istituzione avvenne all’inizio del XIV secolo, quando si cercò di dare un assetto territoriale definitivo ai vari castelli e paesi della nostra zona, fatto questo che si inserisce in un fenomeno socio-politico di ben più vasta portata.
Ma oltre al tributo in denari, il solo versato dagli altri castelli di cui ci è giunta memoria, Sonnino consegnava anche una torcia di cera vergine. Gli studiosi di Sonnino, seguendo la linea plurisecolare delle contestazioni del loro paese, danno a questo fatto un significato simbolico, escludendone quello di omaggio dovuto. Senza compiere specifiche ricerche negli archivi degli antichi tribunali ecclesiastici romani – fino ad oggi, per quanto mi consta, mai compiute – è impossibile dare un significato esatto alla consegna della torcia da parte dei Sonninesi, ma non va dimenticato che alla consegna dei ceri si può legare anche il concetto di tributo, come, per esempio, succedeva a Lucca, nel XIII secolo, quando, in occasione di una delle feste del Volto Santo, tutti i sudditi della Repubblica Lucchese, da 14 a 70 anni di età, dovevano presentarsi con una candela per la processione del 13 settembre. A Priverno stessa, per il XVII secolo, è documentata una usanza nella quale il cero assume chiaramente il carattere di omaggio. Questo avveniva il 6 dicembre, quando, in occasione della festa di S. Nicola gli studenti del collegio omonimo offrivano al santo, quale tributo di riconoscenza per loro avvocato, “(…) un cero tempestato di monete”.
L’Archivio storico comunale di Priverno ha perso tutto il materiale anteriore al XVI secolo, però da due inventari, redatti nel 1706 e nel 1792, si hanno notizie e qualche volta anche il regesto di numerose pergamene relative al XII-XV secolo. Fra queste sono inventariati: “Due fasci di scritture contro la Comunità di Sonnino dove è I ‘Istromento del Tributo che la sud(d)etta Comunità deve a questa nostra unitamente con l’altro Istromento sopra l’imposizione della colletta di quegli Sonninesi che possiedono nel nostro territorio”, cioè della tassa del Consorzio di cui si dirà più oltre.
A questo punto non è fuori luogo citare il caso di Alatri, dove si conservano due transazioni, del 1395 e del 1405, relative agli obblighi che Collepardo aveva nei confronti di Alatri proprio per motivi analoghi a quelli dei paesi vicini a Priverno.
In occasione della festa di S. Sisto – precisamente il martedì e mercoledì dopo la domenica di Pasqua – i collepardesi, come atto di sottomissione, che già allora si compiva per antica consuetudine, dovevano consegnare nel contesto di un particolare ludo, “uno cereo ponderis medie decine” (un cero di mezza decina) alle autorità di Alatri. Il ludo, dettagliatamente descritto nelle due transazioni, consisteva in un curioso cerimoniale che si svolgeva tra il Palazzo comunale e la Cattedrale di Alatri: venticinque uomini armati di Collepardo dovevano andare ad Alatri dove, giunti al Comune, depositavano le armi in un apposito locale e davanti alle autorità civili, al suono del piffero di un giullare, avevano l’obbligo di ballare e saltare secondo precisi momenti e luoghi durante i due giorni dei festeggiamenti. Ciò compiuto, il mercoledì, dopo la messa solenne celebrata in Cattedrale ed altre danze, i collepardesi potevano riprendere le armi e tornarsene in paese.
Certamente le perdute transazioni stipulate tra Priverno e Sonnino e gli altri castelli dovevano contenere precisazioni del genere ed altre sull’origine del tributo.
Per gli altri paesi le notizie sono meno circostanziate, ma, sempre nell’inventario del 1792, si legge: “Carta pergamena lunga di carattere gotico dove vengono specificati li confini territoriali di Piperno, Prossedi, Maenza e Roccagorga, ed a corpo della medesima vi si trova la Bolla di Alessandro III confermante li confini del nostro territorio, qual Bolla fu spedita il ventisette aprile, indizione ottava del Mille cento settantaquattro, o mille cento settantacinque”.
Questa pergamena, che fa riferimento alla citata Bolla di Alessandro III, dovrebbe risalire al XIII secolo, mentre l’assetto definitivo dei confini si avrà più tardi, durante la prima metà del XIV secolo. Maenza e Prossedi, posti nella parte settentrionale del territorio di Priverno, si trovavano nelle stesse condizioni di Sonnino, e come Sonnino, spesso erano coinvolti, sempre per i confini, in frequenti controversie con Priverno.
Ma la posizione di Sonnino era ben diversa da quella degli altri due paesi. In effetti, fra Priverno e Sonnino sono documentate liti e discordie secolari per cui non è raro trovare incrociati i percorsi storici delle due località. E proprio ad una di queste controversie, sorta nel XIII secolo, è legata la transazione del 1506 che si incatena con il pagamento del tributo di Sonnino.
Nel XIII secolo, dunque, una deviazione dell’alveo dell’Amaseno, confine naturale per alcuni chilometri fra Priverno e Sonnino, aveva causato a quest’ultima comunità la perdita di una piccola parte del suo territorio, di cui beneficiò il comune di Priveno. Il fatto provocò numerose liti a cui si tentò di porre fine con la ricordata transazione che venne concordata nell’Aule Comuni di Priveno, il 4 novembre 1506.
Nell’atto – presenti il sindaco di Priverno e Giovanni Angelo Marini rappresentante degli ufficiali della stessa città, e il capitano del popolo di Sonnino accompagnato dal notaio Giacomo di Nicola dello stesso luogo – fu convenuto che i sonninesi che occupavano quella nuova parte del territorio di Priverno potevano trarne alcuni benefici pagando, a titolo di Consorzio, la somma di 30 fiorini annui da consegnare, con il tributo, il 29 giugno. Molto più tardi, comunque, il tributo e il consorzio venivano pagati in giorni diversi.
L’imposta del consorzio (è menzionata anche con il nome di Taglione) era perciò di natura diversa da quella del tributo e nei secoli che seguirono i sonninesi, più degli altri, cercarono di confondere le due cose non tanto per motivi economici, ma per l’insofferenza del titolo di Tributo, che suonava come una umiliazione per le loro dignità civica.
Oltre al tributo, anche Prossedi e Maenza pagavano un’imposta, ugualmente a titolo di Consorzio.
Con Prossedi, Priverno più volte ha avuto problemi per i soliti motivi territoriali. A questo fatto si riferisce la nota dell’inventario del 1792, nel quale si legge: Una cassa di latta con dentro la Sentenza fatta a libretto in carta pergamena con copertina concernente la causa territoriale di Piperno contro Prossedi con tre scritture. La precisazione libretto in carta pergamena potrebbe rinviare a periodi molto lontani, mentre nella seconda metà del XVIII secolo vi furono altri problemi di confini il cui tracciato, per l’occasione, fu rilevato dal noto ingegnere Angelo Sani; a questi problemi si riferisce anche il decreto n. 51 di Antonio Rusconi che nel 1784 aveva sentenziato favorevolmente a Priverno per una discordia di confine.
Al consorzio riportano documenti dell’inizio dell’800 – relativi al solito problema dei due versamenti annuali dal titolo di Tributo e Consorzio, che si cercava di ridurre ad un solo versamento a titolo di Consorzio – ed una lettera del 1843 con la quale alcuni cittadini di Prossedi si impegnavano a rimborsare al loro Priore, Pietro Paolo Arisi, la somma spesa per la stessa causa perduta contro Priverno.
Il consorzio pagato da Maenza è così ricordato dall’inventario del 1792: Consorzio in carta pergamena della Comunità di Maenza a favore di Piperno. La transazione avvenne nel 1506, come si ricava da cinque lettere conservate presso l’Archivio storico comunale di Privemo. Quattro furono scritte, nel 1819, dall’avvocato Giovanni Antonio Zaccaleoni, il quale stava preparando in Roma la causa contro Maenza per la riscossione del consorzio, mentre già prospettava altre cause contro la stessa comunità e contro Prossedi per il tributo.
In queste lettere è messo bene in evidenza che tributo e consorzio sono due cose distinte e diverse. Tuttavia, mentre a sostegno dei diritti del consorzio si poteva esibire la transazione del 1506, ancora esistente nella copia originale, per il tributo restavano solo le antiche e recenti ricevute dei versamenti annuali.
La quinta lettera, che si conserva in copia, era stata scritta dal cardinale Saluzzo che, occupandosi della causa con i maentini, richiedeva una copia della transazione del 1506.
Questo, in sintesi, è quanto si può dire sull’esistenza del tributo, prima del XVI secolo e, a partire dallo stesso secolo, del consorzio. La più volte ricordata mancanza di documenti del XII-XV secolo non permette di essere più precisi sull’origine del tributo e sulla sua natura e, come già accennato, solo una ricerca approfondita negli antichi archivi dei tribunali romani potrebbe dare la soluzione del problema. Fra quei documenti, infatti, non è improbabile trovare una copia delle transazioni fatte tra Priverno e le tre comunità interessate contenenti, appunto, le informazioni attualmente mancanti.
Tuttavia, indipendentemente dai contestati rapporti di sudditanza tra Priverno ed i tre castelli circostanti – tutti peraltro ancora da studiare su basi scientifiche – e dalla natura del tributo, nessuno studioso degno di questo nome può negare la sua esistenza, tanti sono i documenti che ne parlano dal XVI al XX secolo.
Per la stessa continuità documentaria, anche se frammentaria, non è lecito pensare ad un “falso storico”, come spesso succede di leggere per casi di difficile soluzione o comunque poco chiari.
Il tributo ed il consorzio furono due imposte diverse versate al Comune di Priverno che andavano a confluire nelle casse comunali, con gli altri introiti, a beneficio esclusivo del Comune di Priverno e non a quelle camerali dello Stato Pontificio. Di questa ultima particolarità se ne ha conferma dal fatto che tali introiti venivano regolarmente incassati durante il periodo napoleonico in Italia – quando, cioè, lo Stato Pontificio era stato soppresso – e regolarmente registrati, fino al 1910 (anche se non incassati), a partire dall’Unità d’Italia che, di fatto, ha posto termine al pagamento del tributo e non del consorzio, il quale per la propria natura – era una tassa sul pascolo – continuò ad esistere fino ai primi decenni del ‘900.
Le controversie sorte con le vicine comunità, ma particolarmente con Sonnino, furono motivo di numerose cause svolte nei tribunali di Roma di cui, qui di seguito, insieme all’altra documentazione, se ne indicherà qualcuna.
Nell’Archivio storico di Priverno, almeno fino ai primi decenni dell’800, si conservava moltissimo materiale pergamenaceo compreso il citato Istromento del Tributo con Sonnino relativo agli ultimi secoli del Medioevo: oggi però si conservano solo sporadici documenti, datati a partire del XVI secolo, nell’archivio comunale e in quello capitolare della Cattedrale dei quali, a maggior chiarezza del problema, si da una sommaria indicazione.
Fra le prime carte vi è una trascrizione di consegna del tributo da parte delle tre comunità (1631 e 1640) estratta dai libri mastri in copia legale del 13 maggio 1641, dal notaio Marco Antonio Melchiorre. Vi sono, poi, numerose carte concernenti le cause sostenute da Priverno con le tre comunità.
Negli anni 1506,1582,1629, 1630 e 1682 vi furono cause per il tributo, giudicate in Roma e sempre vinte dal Comune di Priverno; nel 1786, altra causa per il consorzio con Sonnino; nel 1828, altra per il tributo con Sonnino (doc. 16b); nel 1904-1915, infine, altra causa con Sonnino per il consorzio.
Relativamente al tributo si conservano alcune lettere, sia trascritte dal canonico Vincenzo Oliva, sia in originale, dalle quali risulta il costante desiderio da parte dei tributari di eliminare la controversa parola “tributo” a favore di “consorzio”. Si veda, a titolo di esempio, il documento 15, mentre per le torce, che venivano conservate in un armadio della segreteria comunale, si ha particolare testimonianza nell’inventario del 1706 dove sono menzionate otto torcie de tributi di Sonnino.
Altre importanti testimonianze dei versamenti del tributo e del consorzio si hanno dai superstiti libri contabili.
Nell’introito del 1627 sono previste le entrate del Taglione (consorzio) e quelle del tributo. Gli stessi introiti si ritrovano nei capitoli di entrate del 1721-1742, del periodo napoleonico, del 1825 e 1828, del 1843, del 1859 e, quasi sempre, dal 1872 al 1897. Nei libri mastri del 1900-1910 appare ancora il titolo Tributo e consorzio dei Comuni circonvicini, anche se, a partire dall’Unità d’Italia, come si è detto, le somme non venivano più versate, almeno da quanto risulta dalla documentazione disponibile.
Altra fonte di utili informazioni sono le deliberazioni consiliari del Comune di Priverno del periodo postunitario. Dei secoli anteriori all’Unità d’Italia si sono conservate poche deliberazioni che comunque non contengono elementi relativi al tributo e consorzio.
I sonninesi, dal 1871 al 1874, non avevano più consegnato le torce e il fatto costrinse il Consiglio Comunale di Priverno, con delibera n. 54 del 30 maggio 1875, a prendere provvedimenti in merito. Ma la cosa non fu risolta e l’anno successivo, con seduta n. 63 del 29 maggio 1876, il Consiglio Comunale prospettò il ricorso ai mezzi legali per ottenere quelle torce. Durante la seduta però si venne a sapere che i sonninesi stavano confezionando le torce per cui, in attesa di verificare la notizia, la decisione fu rinviata.
Il 24 febbraio 1877 – deliberazione n. 8 – la situazione era ancora stagnante. Intanto il Comune di Sonnino faceva sapere che intendeva muovere causa contro Priverno per i diritti del consorzio, tuttavia, essendo a conoscenza della causa che da noi si intendeva accendere per le torce non versate, propose un incontro destinato a risolvere pacificamente la controversia. Il Consiglio Comunale accettò la proposta, ma trattandosi di liti che avevano origini lontanissime, prima di stabilire l’incontro propose la costituzione di una commissione destinata a studiare la documentazione in loro possesso.
Tuttavia, al Comune di Priverno furono necessari altre tre sedute consiliari (n. 27 del 21 ottobre 1878, n. 143 del 27 dello steso mese e n. 66 del 26 maggio 1879) per decidere l’elezione dei mèmbri di tale commissione, che furono: Vincenzo De Castris, Luigi Tacconi, Tommaso lannicola e Rocco Miccinilli.
Ma, evidentemente, la questione non interessava molto agli amministratori di Priverno poiché nella seduta del 30 giugno 1883 il Consiglio rinviava, ancora una volta, la decisione da prendere in merito alla proposta dei sonninesi.
Solo all’inizio del ‘900 (del. n. 862 del 24 novembre 1906 e n. 878 del 26 gennaio 1907) il Comune decise di entrare in causa contro Sonnino per i diritti connessi alla transazione del 1506, di cui si conserva la documentazione ampiamente utilizzata nel presente lavoro.
Volutamente, in questa analisi, per mancanza di continuità della documentazione pervenutaci – e soprattutto per la sua frammentarietà – non è stato toccato l’aspetto giuridico della secolare controversia, senza entrare in merito, perciò, al fatto di chi ha ragione e di chi ha torto, ma quanto rilevato ed esposto prova in maniera irrefutabile la storicità del tributo e del consorzio che Maenza, Prossedi e Sonnino dovevano da tempi immemorabili, come spesso si legge in questi documenti, alla comunità di Priverno.
2 Il Palio del Tributo
Il tributo, come accennato, veniva consegnato il giorno di S. Pietro, cioè il 29 giugno di ogni anno. La cerimonia della consegna avveniva solennemente nella Sala Consiliare del Comune di Priverno, dove il sindaco e gli ufficiali, assistiti dal camerario, ossia il responsabile della contabilità amministrativa, e da due testimoni, ricevevano le delegazioni dei comuni tributari, le quali erano costituite da appositi messi, o dal sindaco stesso.
A proposito, il Valle precisa che nella sala, al di sopra delle immagini dei santi Pietro e Paolo, si vedevano notate a lettere tonze queste parole: Tributo di Sonnino, di Prossedi, e di Maenza.
In realtà, però, le cose non andavano sempre lisce. La particolare riluttanza dei sonninesi nel compiere questo antico dovere talvolta provocò lo sdegno degli amministratori che in quelle occasioni escogitavano cerimoniali trionfalistici, come avvenne nel 1682, quando in una delle tante cause fu emessa sentenza inappellabile a favore di Priverno. Allora Cesare Guarini, rappresentante del Comune presso il tribunale romano della Congregazione del Buon Governo, scrisse al sindaco e magistrati di Priverno una lettera con la quale dava precise istruzioni sulla maniera di ricevere il Messo di Sonnino inviato a Priverno per consegnare la torcia e il denaro del tributo.
E’ impossibile dire se le disposizioni di Cesare Guarini, destinate a tenere li Sonninesi più mortificati, furono eseguite alla lettera, tuttavia resta pur sempre interessante, nel contesto storico, la descrizione dell’accoglienza che si doveva fare al messo di Sonnino alla porta di Priverno, che in questo caso doveva essere la Porta Posterula (ora Porta Napoletana).
Ugualmente incerte sono le ragioni per cui il tributo veniva consegnato il giorno di S. Pietro, santo protettore di Priverno, ma si sa che quel giorno era festa grande, più di quelli dedicati al nuovo patrono S. Tommaso d’Aquino e alla Madonna d’Agosto, veneratissima protettrice di Priverno. Ma la più semplice delle ragioni è che queste cerimonie – non solo a Priverno – venivano fatte coincidere con la festa dei santi patroni. A Siena, per esempio, quando nel XVI secolo nella Piazza del Campo ancora non si correva il Palio nella forma odierna, ma si organizzava la “Caccia dei Tori” il giorno dell’Assunta, il Governo della città imbandiva un banchetto di 200 coperti che la Signoria dava agli ambasciatori delle terre del dominio, venute a pagare il censo annuale. Nel caso di Alatri, come si è visto, la consegna del cero e l’esecuzione delle danze da parte dei collepardesi, ambedue segni di sottomissione, avvenivano per la festa di S. Sisto, patrono della città; e si potrebbe continuare con una lunga e inutile serie di esempi.
Al Principe degli Apostoli Priverno ha dedicato un culto particolare fin dai primi secoli del Cristianesimo. A parte il fatto, assai discutibile, che S. Pietro sia stato il fondatore della diocesi di Priverno, è certo che gli fu dedicata una chiesa con annesso monastero, poco distante da Priverno, i cui ruderi, tuttora visibili, almeno in parte, possono risalire al VII-VIII secolo.
Si sa ancora che questo culto era vivissimo nel XIII secolo e la festa del santo assumeva addirittura una valenza politica – confermata, del resto dalla consegna del tributo – se si pensa che, nel 1275, quando fu stipulato uno dei trattati di pace fra Priverno e Sezze, fra le condizioni vi era la seguente: il giorno di S. Pietro quattro boni homines di Sezze dovevano recarsi a Priverno per partecipare alle solennità del santo Apostolo, mentre il giorno di S. Lidano, il noto protettore di Sezze che si festeggiava il 2 luglio, quattro boni homines di Priverno dovevano andare a Sezze. In queste occasioni i quattro uomini scelti rappresentavano le rispettive comunità.
Durante la seconda metà del XVI secolo, per il giorno di S. Pietro sono documentate due manifestazioni, una militare e l’altra agonistica.
La prima consisteva in una parata militare. A un’ora determinata della mattinata, gli uomini validi di Priverno, uno per famiglia da 18 a 50 anni di età, armati di lancia o di altre armi, si riunivano in piazza del Comune e, in ordine di “porta”, si recavano alla ricordata chiesa di S. Pietro. L’apparato di sfilata era così composto: due “porte” accompagnate dai loro centurioni aprivano il corteo, seguivano le insegne del Comune e, quindi, le altre due “porte” coi relativi “centurioni”. Partiti da S. Pietro, nella cui chiesa avevano assistito alla cerimonia religiosa della particolare circostanza, rientravano in piazza del Comune dove ricevevano un “congio” di buon vino per ristorarsi dalla calda camminata.
Una parata analoga si faceva il lunedì di Pasqua e un’altra, che aveva come meta non precisate rive dell’Amaseno, si svolgeva il giorno di S. Giovanni Battista.
L’altra manifestazione, che si organizzava il giorno di S. Pietro per incitare all’esercizio fisico i giovani di Priverno e i forestieri, era il bravio; si correva a cavallo da Porta Posterula a Porta Caetana lungo il percorso dell’attuale via Consolare. La stessa corsa si ripeteva il giorno di S. Giovanni Battista, quindi pochi giorni prima di S. Pietro, mentre per la domenica precedente il carnevale, in piazza si correva la corsa all’anello. Il giorno di S. Tommaso, invece, c’era una gara podistica.
Tutte le competizioni erano premiate con la consegna del bravio, un tessuto di dimensioni e colori diversi, secondo le occasioni, che dovevano fornire gli ebrei prestatori di denaro residenti a Priverno. Raramente il premio era costituito da piccole somme di denaro. In effetti, in quei tempi non era ancora in uso, dalle nostre parti, il termine “palio”, ma come in diverse aree italiane, si usava la parola bravio che significa stendardo, premio, palio. La parola “palio” si legge, la prima volta, nel 1627, fra le spese dei salariati. Alla voce Palij di questo bilancio preventivo, per il motivo su esposto, non corrisponde alcuna spesa. L’uso del vocabolo, comunque, doveva essere abbastanza frequente all’inizio del XVII secolo, poiché il Valle, nell’indicare le varie attività agonistiche organizzate dalla confraternita della Croce, il 3 maggio e il 14 settembre di ogni anno, così si esprime: “(…) nelli quali giorni è consueto per esercitici della gioventù, di correre, di lottare, e donare premi, e Pali] al vincitore”.
L’uso del termine, nel suo significato di premio, è documentato ancora nel 1785, quando per la festa di S. Sozio la confraternita di S. Vincenzo organizzava palij.
Il palio che si consegnava il giorno di S. Pietro era di colore celeste, oppure paonazzo e lungo una “canna” locale, pari a cm. 201. Gli statuti cinquecenteschi a proposito precisano che il “bravio” doveva essere in panni fioretti (panno fioretto, cioè di buona qualità) e dalla stessa fonte si evince che il drappo veniva dato alle persone vincenti e non alle Porte che, in questo caso, non figurano affatto. Nella rievocazione storica il drappo assume la forma di un dipinto lungo cm. 201 e largo cm. 65 che viene consegnato al cavaliere vincente rispettando la tradizione tramandata dagli statuti, ancora viva nell’800, quando, anche se in un contesto diverso, erano sempre i cavalieri vincenti a ricevere il premio della vittoria, di qualsiasi natura esso fosse.
Questo, secondo i documenti, è quanto di storico si può dire sulla festa di S. Pietro e sul tributo, che per secoli è stato consegnato in quel giorno, fino all’Unità d’Italia. La stessa cosa non si può sostenere per le varie gare che si competevano, almeno fino al XVI secolo, nella forma e nelle occasioni ricordate, certamente ereditate da tradizioni già allora secolari.
Manifestazioni pubbliche di carattere agonistico erano correnti ancora nel XVII secolo; fino all’ultimo dopoguerra le corse di cavalli facevano parte delle feste popolari organizzate per l’Assunta, S. Tommaso d’Aquino ed altre ricorrenze religiose, ma è difficile stabilire con esattezza quando le antiche usanze vennero mutate o sostituite con altre.
All’inizio del XVIII secolo si trova ancora menzionata “una Piccha p(er) cor(re)re ali ‘Anello”, quindi si praticava ancora questa particolare gara equestre, mentre per le corse dei cavalli barberi, senza fantino, una lettera del 1816 lascia intendere che da poco tempo era stata introdotta questa corsa, ad imitazione di quella romana, allora molto famosa, che si correva da piazza del Popolo, all’attuale piazza Venezia. Nella lettera è questione di una informazione che Carlo Ciampoli, agente comunale di Priverno in Roma, su richiesta del sindaco Giovan Battista Colaboni, dava sulla maniera di giudicare il cavallo vincente nella corsa romana, metodo che poteva essere adottato anche per la corsa di Priverno.
La lettera di Carlo Ciampoli porta la data 21 agosto 1816 il che lascia intendere che il problema, a Priverno, sorse nella corsa di cavalli barberi organizzata per i festeggiamenti dell’Assunta, senza preciso regolamento, altrimenti il sindaco Colaboni non avrebbe richiesto quella informazione.
Le corse equestri, con o senza fantino, praticate già nel XVI secolo, si affermarono con nuove modalità durante il XIX secolo ed ebbero formali regolamenti a partire dal 1870.
Considerati questi avvenimenti, che non avevano nulla di folcloristico, ma che appartenevano alla vita ed alle esigenze dei tempi passati, è parso stimolante ricostruirli in forma di spettacolo, in una rievocazione che tiene presente i dati storici e le innovazioni sociali e urbanistiche dei nostri tempi. Non si tratta, quindi, della riproposta di uno spettacolo antico, ma della creazione di uno spettacolo nuovo fondato essenzialmente su avvenimenti che si svolgevano nelle particolari circostanze rievocate.
A partire dalla scelta del titolo. Palio del tributo, nulla è arbitrario, anche se per mancanza di specifica documentazione e per il carattere stesso della manifestazione alcune cose sono di pura invenzione. Si è visto quali erano la natura e le vicende del tributo nel contesto storico che caratterizzava la giornata della sua consegna: si vedrà, ora, il rapporto esistente fra i dati storici e la rievocazione.
Il periodo storico scelto per la rievocazione è uno dei momenti più significativi della storia di Priverno: l’ultimo trentennio del XVI secolo, quando sotto il protettorato del potente cardinale Tolomeo Gallio e l’attenzione che questi riuscì a suscitare in Gregorio XIII per Priverno, la città aveva rinnovato i propri statuti. E proprio dagli statuti si hanno le prime notizie dei bravii e delle parate militari, mentre un po’ ovunque si trovano indicazioni sulle armi, sui costumi e su altri elementi indispensabili per una rievocazione che si vuole storica e non di fantasia o di pura invenzione o, peggio ancora, di semplice scimmiottatura di cose altrui, avulse completamente dal contesto storico del proprio passato.
Pertanto tutta la manifestazione è stata studiata e progettata nei suoi particolari attraverso le testimonianze pervenuteci, proprio a partire dalla denominazione stessa della manifestazione. In effetti il termine “palio”, che originariamente indicava un drappo ricamato e dipinto consegnato al vincitore di una pubblica gara, conviene alla manifestazione di Priverno perché i vincitori delle quattro gare venivano premiati, come ricordato, con pezzi di tessuto aventi dimensioni e colori diversi, o, più raramente, con denaro.
La parola “tributo” poteva essere sostituita con quelle di “S. Pietro” in quanto tutto induce a pensare che parata militare, consegna del tributo e gara di cavalli si facevano in onore del santo Apostolo. Tuttavia, mancando riferimenti precisi al titolo globale dei festeggiamenti, è emersa la parola “tributo” per le sue pregnanze storiche e per l’effettiva rilevanza che questo aveva nel passato.
La manifestazione del Palio del Tributo si organizza, pertanto, intorno a tre momenti essenziali: corteo storico, consegna del tributo e gara equestre.
Essendo scomparsa la chiesa di S. Pietro e di scomoda organizzazione la sfilata militare delle quattro porte di Priverno che vi si recavano, a causa dell’intenso traffico automobilistico, è parso opportuno rievocare la parata militare con il corteo per le vie cittadine rispettando l’ordine delle porte e delle insegne comunali prescritto dagli statuti. Oltre alle insegne di Gregorio XIII e a quelle del cardinale Tolomeo Gallio, fondamentali figure storiche della manifestazione, è stata aggiunta l’importante partecipazione degli altri personaggi della rievocazione, fra i quali i rappresentanti maggiori della “magistratura – gli “ufficiali” e il “sindaco” – e le delegazioni comunali dei vicini paesi.
Il corteo storico, preceduto da una serie di raduni nelle piazzette delle porte, si conclude presso la chiesa di S. Tommaso d’Aquino dove, per ricordare il rito sacro che si compiva nella chiesa di S. Pietro, viene impartita la benedizione a tutti i componenti della rievocazione storica.
La consegna del tributo, come si è visto, avveniva in modo solenne nella Sala Consiliare del Comune di Priverno. La cerimonia, con gli stessi personaggi, viene rievocata nella scalinata della Cattedrale e del Comune, che nel passato era teatro naturale degli avvenimenti più salienti della vita pubblica.
Il giorno di S. Pietro si correva un bravio con i cavalli lungo il percorso dell’attuale via Consolare, cioè da Porta Romana a Porta Napoletana, le quali allora erano prive dei relativi piazzali XX Settembre e Metabo. Alla gara dei cavalli, per motivi diversi, compresi l’incolumità degli spettatori, per il primo anno è stata preferita la corsa podistica, che si correva il giorno di S. Tommaso, alla quale potevano partecipare i giovani di Priverno e quelli dei paesi vicini. A partire dalla seconda edizione è stata introdotta la Corsa ali ‘Anello, che si correva in piazza del Comune con cavallo sellato e lancia militare senza ferro.
Altro elemento della rievocazione storica è dato dall’offerta del vino che, in occasione della decima edizione del Palio, dopo tentativi di adattamento ai tempi moderni, si introdurrà nella fase che precede la corsa all’anello in una forma più vicina ai dati storici. In realtà il vino veniva offerto ai militi di ritorno da Colle S. Pietro, il 29 giugno, e dall’Amaseno il giorno di S. Giovanni.
Per le armi, gli strumenti ed alcuni aspetti coreografici sono stati tenuti presenti documenti che ne fanno menzione, anche se in situazioni e tempi diversi.
La rievocazione storica del Palio del Tributo, essenzialmente di carattere militare e agonistico, è stata aggraziata – ovviamente senza riferimenti storici – con la presenza di alcune dame, compagne degli “ufficiali” e dei “nobili”.
3 Costumi e araldica
Per quanto concerne i costumi, le poche notizie disponibili interessano i “roboni” della magistratura (sindaco e quattro ufficiali) ed alcune figure secondarie in servizio stabile presso il comune, come i mandatari e servitori, non meglio precisati.
A proposito del sindaco e ufficiali, negli statuti è previsto l’obbligo di portare abiti lunghi (vestìbus longis) in tutte le cerimonie religiose e civili nelle quali era d’obbligo la loro presenza.
Nell’inventario del 1706 cosi sono descritti quegli indumenti che, pur se rinnovati attraverso i secoli, sono rimasti sempre della stessa forma:
Un credenzone dove sono cinque Borroni (roboni) per servizio del Magistrato, cioè “uno di velluto negro con sue mostre di raso giallo, per lo Sindaco, e quattro di raso negro per li Officiali, e cinque coppole simili una di velluto negro, e l’altre di raso negro. Quattro collarini con li faccetti con suoi collaroni”.
Meno particolareggiato è l’inventario del 1792, dove è detto: “Una credenza grande con dentro gl’abiti dei Signori del Magistrato, livree de ‘ Servitori, tappeti (…)”.
Più dettagliato, invece, è il preventivo che il sarto romano Francesco Pavia inviò, il 16 gennaio 1808, a Leopoldo Setacci, sindaco di Priverno, per la confezione, assai costosa, di roboni e livree, di cui si stava occupando Alessandro Ciampoli, agente in Roma del Comune di Priverno. Al preventivo il sarto allegò campioni di tessuto e fodere relativi ai Rubboni e alle livree dei domestici comunali, con indicazioni sui medesimi, sufficienti a visualizzare forme e colori degli indumenti cui si riferiscono.
Un altro documento, alquanto particolare, è costituito da una lettera, del 1812, scritta dal gonfaloniere di Frascati al gonfaloniere di Priverno, con la quale proponeva l’acquisto dei roboni della sua comunità. Questa proposta, che probabilmente era stata inviata anche ad altri comuni, fu motivata dal fatto che la comunità di Frascati doveva cambiare il colore dei roboni. Quelli che fino allora avevano indossato erano simili a quelli di Priverno sia per il colore (nero) che per decorazioni (oro e argento) e il tessuto (velluto). Il Comune di Priverno non acquistò quegli indumenti, poiché nel 1816 si trova ancora un altro preventivo per la confezione di roboni ed accessori, dovuti ancora a Francesco Pavia. L’uso dei roboni, probabilmente, si protrasse fino all’Unità d’Italia e non è fuori luogo supporre che quelli tuttora conservati, anche se in cattivo stato, presso il Comune di Priverno siano stati confezionati in seguito alla seconda contrattazione con Francesco Pavia.
Altre menzioni di costumi interessano i mandatari – che, comunque, non rientrano fra i figuranti del Palio – mentre nulla si sa dell’abbigliamento degli armigeri che, probabilmente, indossavano gli abiti di uso corrente; dagli statuti, in effetti, risulta solamente che portavano armi diverse, lance e schioppi (archibugi).
Data la dispersione, o distruzione, degli archivi delle antiche casate privernati, mancano ugualmente riferimenti alla foggia del vestire della locale società, cui non da nessuno apporto l’iconografia cinquecentesca, molto rara a Priverno.
Per cui, fatta eccezione per i cinque costumi della magistratura e per quelli dei paggi, si è dovuto ricorrere alla documentazione contemporanea dell’ambiente romano, cui certamente si ispirava la “moda” di Priverno, come sembra provare il riferimento esplicito fatto da Cesare Guarini nella sua lettera del 1682.
Anche per l’araldica è stato necessario operare con una ricerca, sempre condizionata dalla penuria dei documenti, con risultati alquanto soddisfacenti, almeno per i simboli araldici.
Non essendo noti i colori antichi, per le bandiere ed i gonfaloni generalmente sono stati adottati quelli moderni mentre per le forme degli scudi sono state riprodotte, eccetto per le porte, quelle note di sigilli e stemmi antichi.
Lo stemma comunale di Priverno, conosciuto anche tramite un esemplare del XIII secolo, riproduce quello pubblicato nell’edizione del 1573 degli statuti di Priverno, il quale, con la particolare tecnica del tratteggio restituisce anche i colori del “campo”, “spaccato” di verde e di rosso granata. Le figure del medesimo – albero con leone andante a sinistra con la zampa anteriore destra posata sopra una testa umana – sono le stesse che si vedono nello stemma del XIII secolo e in quello dei tempi moderni che presenta, però, una aggiunta risalente al XVII secolo costituita dall’aquila ad ali spiegate con due frecce fra gli artigli e la divisa: Privemum Metropolis Volscorum.
Per lo stemma di Gregorio XIII esiste una abbondante documentazione concernente l’araldica pontificia, mentre per quello del cardinale Tolomeo Gallio è stata tenuta presente la figurina stampata nella ricordata edizione degli statuti e uno stemmario della diocesi di Como.
Lo stemma Guarini è documentato nella forma e nei colori dalla descrizione del Valle, da un esemplare del XV-XVI secolo e da un altro dipinto, datato 1613, ambedue presenti in edifici appartenuti a quella famiglia.
Più problematica è stata la soluzione araldica delle porte di cui non è noto alcun documento, scritto o grafico. Nel disegnare i quattro stemmi, la cui comice è ispirata a quella del rione Trastevere di Roma del 1563, sono stati considerati, rispettando nei limiti del possibile le regole araldiche, alcuni aspetti naturalisti e architettonici relativi alle quattro porte. Gli stemmi dei Comuni presenti nel Palio – Maenza e Prossedi – sono stati realizzati tenendo conto dei colori moderni e dei simboli di antichi sigilli delle due comunità.
4 Le Porte e gli Ufficiali
Con il termine “porta”, a Priverno si usava indicare il rione che, proprio da una porta delle mura civiche prendeva il nome. Per la solita mancanza di documenti, è impossibile determinare con esattezza il periodo in cui i nomi delle porte e dei rioni sono entrati in uso, ma è certo che le mura ed il nome di una delle sue porte – Porta Campanina – risalgono almeno alla seconda metà del XII secolo. Un primo riferimento indiretto – sono menzionati i quattro ufficiali – delle porte/rione si ha nel 1368 e solo con gli statuti del 1573 si ha la prima menzione completa, in ordine gerarchico poi sempre rispettato nella documentazione ufficiale, delle quattro porte in cui era ripartito il tessuto urbano: Campanina, Posterula, Romana e Paolina. L’uso di questa denominazione è rimasto in vigore fino alla metà del XVIII secolo.
Un eccezionale documento del 1684 ha permesso l’identificazione – anche se con qualche comprensibile inesattezza – dei quattro rioni nell’ambito del tessuto urbano del centro storico. Si tratta di due volumi catastali nei quali i contribuenti e relative proprietà sono registrati e raggruppati in rioni, cioè per porte.
Nel passato ogni porta era rappresentata nella amministrazione comunale da due figure importanti: quella degli Ufficiali, che rivestivano cariche politiche e sociali, e quella dei Centurioni, ai quali incombeva, fra l’altro, la formazione militare della popolazione e la custodia delle porte che si aprivano lungo le mura. Tali funzioni – che facevano parte della magistratura e relative competenze – sono rigorosamente codificate negli statuti del 1573 che stabiliscono anche i tempi della loro durata in carica e le condizioni necessario allo loro eleggibilità. Solo nel corso del XIX secolo gli ufficiali furono sostituiti da quattro anziani le cui funzioni, evolute col passare del tempo, sono state assunte dagli attuali assessori.
Con una ripartizione arbitraria e antistorica, che corrisponde, comunque, a precise emergenze orografìche ed a necessità organizzative della manifestazione, l’area delle porte è stata estesa a tutto l’abitato moderno che si è sviluppato fuori le mura, a partire dai primi decenni del ‘900.
Mentre nel passato la funzione delle porte, degli ufficiali e dei centurioni, oltre a quelle specifiche appena accennate , era quella di partecipare alle ricordate parate militari, nella coreografia del Palio del Tributo essi scandiscono il ritmo di tutta la manifestazione, nella quale sono così rappresentati: gonfalone della porta, ufficiale, centurione, tamburini, armigeri e cavalieri.